M.G. Satchidananda
Tutti noi siamo un continuo divenire, un cantiere di lavori in corso. E come sadhaks impegnati nella sadhana, disciplina dello Yoga, andiamo scoprendo sia individualmente che collettivamente la kundalini, il nostro potenziale potere e la coscienza, insieme ai limiti della natura umana e dell’egoismo. Nelle prime fasi del percorso, la maggior parte degli studenti pratica le varie kriyas o posture per alleviare le tensioni e i dolori che affliggono il corpo fisico, vitale o mentale. Alcuni cercano una guida nella letteratura della Saggezza Yogica.
Quando la pratica diventa regolare, il sadhak inizia a godere di migliore salute, di più energia e di maggiore calma.
Quando la mente tace durante la meditazione profonda, si possono intravedere scorci della dimensione più profonda dell’essere, quella spirituale.
Ma per quanto meravigliose siano, queste visioni rimangono fugaci, fino a quando non si riescano a vincere le manifestazioni dell’io, la paura, la rabbia, il desiderio e l’orgoglio. Cresce allora la consapevolezza che queste sono la vera fonte di ogni sofferenza. Molti semplicemente cercano distrazione dalla sofferenza, ignorando il vero scopo e la promessa dello Yoga.
Altri cercano di evitare ciò che li fa reagire, sperando che cambiare le cose fuori, nel lavoro, partner, amici, dieta o stile di vita, li libererà dalla sofferenza. Ma i saggi e sinceri abbracciano il processo di purificazione del Sé. La trasformazione derivante da questo processo dipenderà tuttavia dalla misura in cui la mente e il corpo vitale del sadhak stabiliscono l’alleanza con l’anima o la psiche e si mantengono lontani dall’ego.
L’ego non può purificarsi, è solo il nostro Sé superiore, o anima, non toccato dalle manifestazioni dell’ego, che è capace di farlo. Ma come portarlo in evidenza nella nostra coscienza? Come cercare la sua influenza a sottomettere l’ego? La nostra anima è come un monarca costituzionale che ha delegato tutti i suoi poteri ai suoi ministri. Quando questi poteri torneranno nelle mani del loro sovrano? Certamente, il percorso in cinque passi del Kriya Yoga di Babaji fornisce molte tecniche che contribuiscono a purificare il subconscio, sviluppare la necessaria concentrazione, creare immagini mentali positive e sviluppare la capacità dell’intelletto di trovare la saggezza.
La nostra anima o ”essere psichico”, resta tuttavia celata dietro la mente, le emozioni e le sensazioni, fino a quando il sadhak non si concentra al suo interno e trova la luce mistica, la dolce presenza del Divino, del Vero, del Buono, della Bellezza, che è immanente e trasversale. Guru, Dio e Sé sono Uno. Durante la prima iniziazione, si apprende la tecnica per comunicare con Babaji, il Guru del Kriya Yoga. Questa tecnica di comunione con Babaji consente alla nostra anima, al nostro Sé superiore, o come lo definisce Sri Aurobindo, il nostro “essere psichico” di rimuovere progressivamente il velo dell’egoismo, fino ad un’identificazione totale con esso. L’identificazione completa con la nostra anima si verifica solitamente solo dopo una sadhana molto prolungata. Questa identificazione si manifesta con la presenza di grande gioia in tutte le situazioni. L’iniziato si sente immortale, eterno. Sente la dolce Presenza del Divino.
Ma durante il lungo processo di purificazione e di identificazione con il Sé più elevato, il sadhak deve rivolgersi ripetutamente al suo se’ interiore, concentrarsi e ascoltarne le direttive e poi obbedirvi. Gli si rivelerà tutto ciò che deve essere purificato nella sua natura. Metterà in luce tutto ciò che deve essere modificato o eliminato. Il vero sovrano lo attende! Non basta essere solo “consapevoli”, occorre aspirare a servire il Supremo. Chiedergli di aiutarci a resistere all’impulso di manifestare rabbia, orgoglio, gelosia e lasciare andare paura, desiderio, tutte le vecchie abitudini negative. Con amore e devozione al Divino in ogni momento ed in ogni luogo, occorre aspirare a diventare il suo strumento, usando gentilezza, agendo con abilità e calma. Vedere il volto del Divino in tutti gli altri. Lasciare che il cuore canti per Lui con amore e gioia. L’anima avanzerà mentre mente e corpo vitale si calmeranno, si ritrarranno ed Egli dirigerà la vita.
Il mio insegnante spesso ci consigliava di “Andare alla ricerca Babaji per diventare Babaji”.
Chi è Babaji? Saprai chi è Babaji quando sai chi sei, e smetti di identificarti con le manifestazioni dell’ego.
Nel Tirumandiram, questo stato è indicato come turiyatita, lo stato al di là della turiya, ed è descritto in dettaglio nel suo terzo Tandram o libro. La parola “turiya” letteralmente significa “i quattro”, ma nel contesto dello yoga si riferisce allo stato di coscienza oltre i tre stati di veglia, sogno e sonno senza sogni, in cui l’anima, attraverso il corpo, vitale e mentale, acquisisce conoscenze ed esperienze. Nel quarto stato, l’anima sperimenta l’unione, l’identità con l’Essere Assoluto, la Coscienza e la Beatitudine. In turiya, è consapevole della sua unità con la divinità. In turiyatita, la persona non ha tale consapevolezza. Lui o lei è fuso nell’unità, la dualità cessa. Questi stati sono conosciuti come avasthas e Tirumular li descrive nell’ottavo tandiram, o libro.
Nello Yoga-Sutra I.24 Patanjali lo chiama isvàra, “il sé speciale, non toccato da alcuna afflizione, azione, frutto di azioni, o da alcuna forma interiore del desiderio”. Le afflizioni, kleshas, non sono che l’ignoranza della nostra vera identità, l’egoismo, l’attaccamento, l’avversione e la paura della morte.
I frutti delle nostre azioni sono il nostro karma. Praticando le yamas (restrizioni sociali) e i niyamas (regole da osservare), ci purifichiamo i kleshas e ci liberiamo dal karma accumulato.
“Il Divino stesso interviene nella vita del discepolo e aiuta a eliminare tutte le difficoltà e le debolezze”
Egli ci dice anche nello yoga sutra I.23, ̈ishvara-pranidhanad-va ̈ che significa che arrendendosi al Signore, si raggiunge l’assorbimento cognitivo. Questa resa non può essere completa se si ferma alla dimensione spirituale del nostro essere. Deve necessariamente affrontare la mente, il corpo vitale, la sede delle
emozioni e dei desideri e del corpo fisico. Per farlo occorre cominciare dalla prospettiva del testimone e distinguere ciò che è eterno da ciò che è transitorio, il reale dall’irreale, il Sé dai moti della mente, del corpo vitale e del corpo fisico. Fare un passo indietro e semplicemente osservarli. È necessario continuare ad osservare minuto dopo minuto e decidere cosa deve essere lasciato andare e cosa può rimanere.
L’arrendersi al Divino, in ogni momento e in tutte le circostanze, è sia il veicolo che l’obiettivo ultimo di uno yoga integrale che comprende tutti e cinque i corpi. La frase “mio Dio e mio tutto” riassume la sua sincera espressione. Il giorno che un sadhak si arrende al Divino, il Divino stesso interviene nella sua vita e lo aiuta a rimuovere tutte le difficoltà e le debolezze e con la sua Presenza porta alla consapevolezza della gioia.
Per far ciò:
(1) il sadhak deve sentire la vanità della propria autostima; (2) deve credere con tutto il suo cuore che c’è qualcuno chiamato Divino che esiste veramente, lo ama e ha l’onnipotenza di fare qualsiasi cosa secondo la saggezza divina; (3) il sadhak deve rivolgersi al Divino come suo unico e ultimo rifugio. (Mukherjee 2003, 87)
Nello stato di consapevolezza della resa, qualunque cosa si faccia o si senta, tutto deve essere un’offerta all’Essere Supremo, in assoluta fiducia, liberandosi da ogni responsabilità per se stessi, consegnando tutti i propri oneri al Divino.
La coscienza e la natura abituali del sadhak oppongono una forte resistenza contro questa resa. Bisogna abbandonarsi senza riserve alla sola guida del Divino. Come sapere se si raggiunge questo stato? Sri Aurobindo dà una descrizione dettagliata di come si sente nel suo profondo un vero saggio sadhak.
Voglio il Divino e nient’altro. Voglio dargli me stesso interamente e poiché la mia anima lo vuole, non posso che incontrarlo e realizzarlo. Non chiedo altro che questo e che Egli mi chiami a se ́, alle sue azioni segrete o aperte, velate o manifeste. Abbandono il mio tempo e la mia strada; agisca Egli nel suo tempo e sulla sua strada; avrò fede in Lui, accetterò la sua volontà, aspirerò costantemente alla sua luce, la sua presenza e la sua gioia, passerò attraverso tutte le difficoltà fidandomi di lui e senza mai arrenderm …Tutto per lui e io per lui. Qualunque cosa succeda, continuerò con questa aspirazione abbandonandomi a lui e continuerò nella perfetta certezza di riuscire a farlo. (Aurobindo 1972, 587).
Di conseguenza, è il Divino stesso che si fa carico di tutto il percorso di sadhana del sadhak.
Il Divino può fare tutto – purificare il cuore e la natura, risvegliare la coscienza interiore, rimuovere ogni velo – quindi arrendiamoci al Divino con fiducia, anche se non riusciamo a farlo subito in modo totale, ma più lo facciamo, più ci
cresceranno dentro l’aiuto e la guida interiori con l’esperienza del divino. Se la mente agitata diventa calma e umile e la volontà di arrendersi cresce, tutto ciò potrebbe essere perfettamente possibile. (Aurobindo 1972, 586-88).
Se la resa è così potente, perché l’uomo non lo fa?
Non ci si pensa, si dimentica di farlo, le vecchie abitudini tornano. E soprattutto, dietro, nascosto da qualche parte nell’inconscio o addirittura nel subcosciente, c’è un dubbio insidioso che ti sussurra all’orecchio … e tu sei così sciocco, così stupido, così oscuro, così stupido da ascoltare e ricominciare a prestare attenzione al tuo ego e tutto è rovinato. (Madre 2004, 257).
Questo significa quindi rinunciare ad ogni iniziativa personale? No, la normale consapevolezza e volontà del Sadhak non sono unite alla Coscienza e alla Volontà divina, come nel caso di un Siddha Yogi. Si continua a vivere nella coscienza separativa dell ́ego con tutti i suoi pro e contro. Il principio essenziale da seguire è quello di affidare al Divino il frutto o il risultato delle proprie azioni; altrimenti si agirebbe solo per la soddisfazione del proprio ego. Sri Aurobindo descrive l’atteggiamento da mantenere in tutte le azioni.
Il Divino è il mio unico rifugio; ho fiducia in Lui e per tutto mi affido a Lui e solo a Lui. Sono completamente arreso alla Sua Volontà. Nessun ostacolo sulla strada e nessuna oscura disperazione mi faranno mai deviare dalla mia assoluta fiducia nel Divino. (Mukherjee 2003, 93).
Il sadhak, però, non deve diventare inerte o abulico, ritenendo che ogni sforzo sia inutile o che il Divino possa compiere tutto al suo posto. Questo aspetto è descritto molto chiaramente dalla Madre:
Ma la suprema Grazia agisce solo nelle condizioni della Luce e della Verità; non in condizioni imposte dalla falsità e dall’ignoranza. Perché, se dovesse cedere alla falsità avrebbe fallito il proprio scopo. (La Madre del 1972, 1,3)
Ci sono condizioni per tutto. Se qualcuno rifiuta di soddisfare le condizioni dello Yoga, non c’è alcuna utilità nel chiedere l’intervento divino. (Nirodbaran 1983, 197).
L’arrendersi tuttavia non garantisce il sadhak contro tutte le future burrasche e gli stress della vita, ma assicura la sicurezza assoluta della salute spirituale anche in mezzo alle tempeste. Il percorso non è detto che sia sempre illuminato dal sole e cosparso di petali di rosa. Ma garantisce che Egli condurrà il sadhak al suo obiettivo spirituale nonostante ogni possibile disgrazia nella vita.
Il Sadhak consapevole sa anche che disgrazia e sofferenza non sono inutili, ma sono decise dal Divino per adempiere uno scopo spirituale necessario il cui significato verrà rivelato nel tempo. Il Sadhak sa e sente che il Divino non è lontano, ma risiede nel cuore della sua più acuta sofferenza, guidandolo all’unione con il Divino.
Il Sadhak sa anche che ogni difficoltà porterà un grande beneficio spirituale se
affrontata con il coraggio, la pazienza e l’atteggiamento giusto in uno spirito di accettazione. Infine, il sadhak sa che c’è uno scopo fondamentale che porta ad un futuro bene spirituale. Il suo mantra rimane: “Lascia che la tua volontà sia fatta sempre e ovunque” (Mukherjee 2003, 101).
Sri Aurobindo ha descritto le quattro fasi in cui l’anima, o l’essere psichico, si risveglia fino a dirigere l’auto-trasformazione in tutti e cinque i corpi praticando aspirazione, rifiuto e resa.
La prima fase
L’Essere psichico rimane celato dietro il velo dell’interiore e i movimenti della mente e del corpo vitale. La parte inferiore del nostro essere non si preoccupa di ciò che vuole l’anima. Reagisce abitualmente ai desideri e alle emozioni, alla richiesta di un comfort fisico e di piccoli agi e disagi. L’influenza psichica appare solo occasionalmente: quando c’è una svolta verso la vita spirituale, l’amore e la resa al Divino, un desiderio per l’ineffabile, il vero, il bene, la bellezza e un’esperienza di amore incondizionato, gentilezza, compassione, Ananda, bhakti.
La seconda fase
Quando l’essere interiore, la mente e il corpo vitale “curano e obbediscono all’essere psichico, quindi in un processo di conversione, cominciano ad accogliere dentro di sè la natura psichica o divina” (Mukherjee 2003, 112). L’aspirazione si sviluppa gradualmente in fasi, e il Divino risponde con la grazia. Rivolgendosi all’interno gradualmente si perde interesse per le vecchie fonti esterne di attrazione dei sensi. La pratica dell’aspirazione, del rifiuto e della resa progressivamente apre ed estende l’influenza dell’essere psichico.
Si sente crescere il potere di superare il desiderio, la rabbia, le vecchie abitudini negative e le altre manifestazioni dell’ego. Si lascia andare il passato, si smette di soffermarsi su quello che è successo. Ci si lascia guidare dall’intuito per fare la cosa giusta, non per obbligo o convenzione morale o sociale, le aspettative della famiglia o dei colleghi, ma perché si sente dentro ciò che è vero e giusto. Si respinge tutto ciò che oppone resistenza o può causare danni, ciò che è falso o eccessivo.
L’amore incondizionato, la gentilezza, la semplicità e la felicità diventano il proprio stato d’essere. Ma si potrebbe ancora ricadere nei vecchi modelli di pensiero e di sentimento. Bisogna quindi continuamente sforzarsi di tornare a fare il testimone e non dare voce ai moti interni abituali.
La terza fase
L’essere psichico esce in primo piano da dietro il velo della mente interiore e vitale e rimane lì. Dirige continuamente la sadhana dell’aspirazione, del rifiuto e della resa. Identifica ciò che deve essere trasformato, lasciato andare e purificato.
Il sadhak si sente continuamente sostenuto e guidato. La beatitudine divina e
l’amore incondizionato colorano le sue percezioni, anche quando il karma deposita spazzatura sulla soglia della sua casa.
Vive nella autocoscienza, padrone dei propri mezzi sui piani mentali, vitali e fisici. Percepisce e lascia andare le manifestazioni dell’ego negli strati più profondi dell’essere interiore, compreso il desiderio e la paura. Si sente strumento nelle mani del divino, opera come un chirurgo, rimuovendo tutto ciò che resiste e ignora la divinità. Diventa co-creatore. I miracoli abbondano nella vita quotidiana. Impara a vivere la vita come una gioia sempre nuova.
In questa fase, il legame all’ego della mente, del corpo vitale e persino di quello fisico viene sostituito da una nuova alleanza al Divino. Si ricerca la perfezione, siddhi. La perfezione in un corpo o in una mente malati non è perfezione. Con la saggezza, l’essere psichico trasforma questi strumenti inferiori in modo che esprimano la Volontà del Divino. Si sviluppa l’entusiasmo per il processo di auto- trasformazione. Durante questo processo, si scopre ciò che era nascosto. Si sperimentano i metodi di trasformazione.
La quarta fase
In questa fase avanzata, l’Essere Psichico trasforma i livelli cellulari e subconsci. Dal 1926 al 1940 Sri Aurobindo e la Madre sperimentarono il digiuno, il sonno, il cibo, le leggi della natura e le abitudini, testando i propri corpi a livello subcosciente e cellulare. Era una corsa contro il tempo, non diversamente da ciò che i Siddhas descrivevano nel loro uso di erbe Kaya Kalpa per prolungare la vita abbastanza a lungo perché gli spiriti più sottili completassero la divinizzazione.
“Fondamentalmente,” disse la madre, “la questione è sapere, in questa gara verso la trasformazione, chi dei due arriverà primo, chi vuole trasformare il corpo nell’immagine della verità divina o la vecchia abitudine del corpo di decomporsi gradualmente “(Satprem 1975, 330).
Il lavoro procedeva ad un livello che Aurobindo chiamava “la mente cellulare”…”una mente oscura del corpo, delle cellule, delle molecole e dei corpuscoli”… questa mente del corpo è una verità molto tangibile; a causa della sua oscurità e attaccamento meccanico alle azioni passate, e al facile oblio e rifiuto del nuovo, troviamo in essa uno dei principali ostacoli alla trasformazione del corpo. D’altra parte, una volta convertita in modo efficace, sarà uno degli strumenti più preziosi della stabilizzazione della luce e della forza sovramentali soprannaturali “(Aurobindo 1969, 346).
Per preparare le cellule, erano necessari silenzio mentale, pace vitale e coscienza cosmica, per consentire alla coscienza fisica e cellulare di allargarsi e di raggiungere una dimensione universale. La mia ricerca ha rivelato che i leader evolutivi come Babaji, i Siddhas, Ramalinga e Sri Aurobindo richiedono l’isolamento per completare la quarta fase della trasformazione della natura umana a tutti i livelli nell’immagine della verità divina. Se questo si verifichi solo individualmente, come con i Siddhas, o come immaginato da Sri Aurobindo, con un salto evolutivo collettivo dell’umanità, il risultato della discesa del sovramentale rimane una questione aperta. (Govindan, 2017).