Siddhantha, Advaita e Yoga – Parte 6

Intervista di Marshall Govindan (Satchidananda) 
Copyright Marshall Govindan © 2014

Domanda: Che cosa è l’illuminazione e come si riconduce a questa discussione?

Risposta: Il termine “illuminazione” è la traduzione di una parola inglese, che fino a pochi decenni non è stata utilizzata in nessuna delle tradizioni Advaita, tranne che nel buddismo dove è stata usata per descrivere lo stato ultimo di libertà esistenziale raggiunto dal Buddha, noto come “Nirvana”. Non ricordo di aver mai visto in passato questo termine nella letteratura tradizionale Advaita, (Vedanta, Shankara, Ramana Maharshi). Ho l’impressione che sia entrato in voga in quanto usato in tempi recenti da insegnanti occidentali che sono stati descritti come “Neo- advaitani.” Io non l’ho mai visto usare nella letteratura tradizionale dello yoga classico, né nei Tantra indù.

Sospetto che gran parte del recente dibattito tra questi insegnanti “Neo-Advaita” su “Che cos’è l’Illuminazione?” e anche una “fase post-illuminazione” riguardi la purificazione delle manifestazioni residue di egoismo: orgoglio, rabbia, paura, accidia e lussuria. Ciò può accadere proprio perché in Occidente non solo ci manca l’esperienza, ma anche la terminologia in inglese per descrivere i vari gradi di illuminazione. Il mio maestro, interrogato su questo argomento, essendo uno yogi e studioso Tamil, ma non un intellettuale, rinviava i suoi studenti agli scritti dei Siddha, (che erano a quel tempo in gran parte non tradotti) e – altrimenti – a quelli di Sri Aurobindo. Il termine più vicino che ho visto correlato a “illuminazione” nella letteratura Tamil del sud dell’India è vettivel che si riferisce al vasto spazio luminoso della coscienza, lo stato di beatitudine samadhi, la consapevolezza trascendente, la consapevolezza di essere. Si tratta di un “luogo” dove i pensieri cadono, uno per uno, fino a quando la coscienza esiste come una distesa vuota. Si distingue per l’assenza di soggettività e oggettività. Si distingue per l’assenza del tempo. E’ l’eterno ora. E ‘un luogo che trascende passato, presente e futuro. E’ uno stato inaccessibile alla percezione dei sensi; uno stato senza segni distintivi, un cielo senza macchia.

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Vettivel è l’emersione dal tempo, la liberazione, la vera libertà. E ‘ “quella Verità che il Sole nasconde nel buio”

E’ senza forma, senza macchia, splendente di luce propria e onnipresente, beata, al di là di ogni espressione, e la luce interiore di coloro che hanno conosciuto Colui che si divide in Brahma, Vishnu e Siva che crea, sostiene e distrugge l’universo intero.
E’ come una colonna di luce e di liberazione

May the feet of the Godhead protect”. – Aforismi di Saggezza 28, verso 1,di Paambatti Siddha, in The Yoga of the 18 Siddhas: An Anthology, pag. 475-476.

Non vi sono parole per descriverlo appieno, ma lo si può realizzare sotto la guida del guru nella pratica dello yoga kundalini come prescritto dai Siddha : apprendendo dalla persona del guru (“ai suoi piedi”) , risvegliando l’energia nel chakra muladhara e dirigendola mentalmente verso l’alto attraverso gli altri cinque chakra superiori fino a raggiungere il sahasrara.

Yogi S.A. A. Ramaiah (1923-2006)page18image3653948224

Domanda: Perché all’inizio di questa intervista affermi che Siddhantha inizia dove finisce Advaita?

Risposta: Lo Yogi Ramaiah risponde brevemente a questa domanda quando descrive l’obiettivo Siddhantha come “completo abbandono.” Mentre l’Advaitan abbandona la prospettiva dell’ego a favore dell’anima sul piano spirituale dell’esistenza, i Siddha si resero conto che la perfezione in un corpo fisico malato, o in un corpo vitale pieno di desideri ed emozioni, o in una mente nevrotica, non è vera perfezione. Si resero conto che “l’illuminazione” o “completo abbandono” o “liberazione” non possono limitarsi al piano spirituale dell’esistenza. Immaginarono il potenziale evolutivo dell’umanità, e alla ricerca della perfezione, svilupparono gli strumenti per realizzare un progressivo processo di purificazione (shuddhi) che coinvolge l’abbandono dell’ego e della falsa identificazione:

1.

Nel corpo spirituale, il anandamayakosha, in cui ci si rende conto del Sat Chit Ananda, Shiva-Shakti, o la realizzazione del Sé; si diventa un santo, in intima comunione con il Divino. La normale prospettiva egoistica di un santo viene sostituita, almeno in parte, dalla consapevolezza della presenza del Divino. Ci si identifica con il “veggente” o “testimone”, ma la mente, il corpo vitale e quello fisico non sono né trasformati né favorevoli alla resa. Ma se la resa del mistico o la comunione è limitata al piano spirituale della realtà, egli può ancora voler fare distinzioni filosofiche o teologiche fino a quando non comincia a rinunciare al suo ego sul piano intellettuale. La maggior parte dei santi non rimarranno sul piano fisico abbastanza a lungo per completare il processo di resa, per vari motivi che vanno dalla salute fisica, all’aspirazione a “uscire da questo mondo di sofferenza.”

Nel corpo intellettuale, vinjananmayakosha, regna il silenzio, il pensiero in gran parte cessa, e si sviluppa la jnana siddhi, la capacità di conoscere le cose intuitivamente, per identità e comunicare questa conoscenza con facilità; come un saggio, guidato soprattutto dalla saggezza intuitiva, che ha abbandonato l’orgoglio di sapere, ma è ancora distratto dalla mente e dalla natura vitale e fisica. L’ego aleggia ancora fino a che la resa comprende tutti i piani dell’esistenza. C’è sempre il rischio di una caduta, e desiderio, avversione, attaccamento alla vita possono ancora creare sofferenza. Come disse Sant’Agostino: “Signore, aiutami ad arrendermi, ma non ancora”. Cioè, parte della nostra natura umana, in particolare il piano mentale, sede di fantasia e desideri, e il piano vitale, sede delle emozioni, resistono alla trasformazione che comporta la resa totale.

Nel corpo mentale, manomayakosha, in cui si sviluppano alcuni dei siddhi associati con i sensi sottili; a cominciare con la chiaroveggenza – la capacità di vedere le cose a distanza nel tempo o nello spazio, o “chiarudienza” – il sottile senso dell’udito, o la precognizione – il sottile senso del sentimento. Si possono fare profezie, manifestare la capacità di guarire i malati e conoscere il passato di altri con comprensione intuitiva, entrando in stati profondi di comunione con il passato, il futuro, o qualsiasi aspetto di un oggetto su cui ci si concentra. Si diventa un Siddha, dopo aver ceduto l’orgoglio come persona, e la ricerca di nuove esperienze, ma si possono ancora provare emozioni problematiche e desideri nel corpo vitale che non si è ancora arreso.

Nel corpo vitale, pranamayakosha, dove si rinuncia a tutti i desideri ed emozioni e ci si distacca dall’ego, verso ciò che Sri Aurobindo chiama “l’essere psichico” o anima, che

poi completa il processo e si manifestano altri straordinari siddhis. Si diventa un grande o Maha Siddha, dopo aver abbandonato l’ego a livello del piano vitale dell’esistenza, capace di manifestare poteri straordinari, che coinvolgono la natura stessa. Ciò può includere la materializzazione di oggetti, la levitazione, il controllo del tempo atmosferico, il compimento di desideri e l’invisibilità. I Maha Siddhas, pur avendo vissuto per proprio conto principalmente in India, Tibet, Cina, e sud-est asiatico, hanno viaggiato per tutto il mondo. Ma il corpo fisico non si è ancora arreso alla natura superiore, alla discesa della coscienza suprema nelle sue stesse cellule.

5. Nel corpo fisico, annamayakosha, che diventa corpo divino, Divya deha, splendente di una luce dorata di immortalità. Pochi rari Siddha sono in grado di consegnare il loro ego a livello del piano fisico dell’esistenza, in cui la coscienza limitata delle cellule del corpo abbandona le ordinarie finalità metaboliche e si integra completamente con la Coscienza Suprema. Questi grandi Siddha sono in grado di manifestare siddhi o poteri, che coinvolgono la materia stessa. Il loro corpo fisico si illumina di una luce dorata di questa coscienza e diventa immune alla malattia e alla morte. Anche per lo Yogi più saggio, questo è difficile da concepire, se si rimane legati al vecchio paradigma della contrapposizione tra spirito / coscienza verso il corpo e il mondo. Si diventa Babaji o un Boganathar o Agastyar e la propria perfezione non è più limitata dall’ignoranza della natura fisica umana; si è invulnerabili alla malattia e alla morte. Se si lascia il piano fisico non è perché la natura fisica ci costringa a farlo. Gli scritti dei Siddha riportano molte descrizioni di questo livello di trasformazione divina.